28 maggio 2006

È solo acqua






La prima volta in cui siamo usciti, il cielo pioveva su di noi.
Ti dissi che ti amavo, tu mi sorridesti e mi stringesti forte.
Non avevamo un ombrello, ma per noi era lo stesso.
Tu eri preoccupata perché le gocce di pioggia scivolavano sulla tua testa, e si fermavano sulle punte dei tuoi capelli.
“È solo acqua.” – ti dissi.

L’ultima volta in cui siamo usciti, un sole afoso ardeva sopra di noi.
Mi dicesti che mi odiavi, e che non mi volevi più rivedere.
Restai in silenzio, mentre il sole batteva indifferente sulle nostre teste.
La traccia di una lacrima mi rigò il volto.
“È solo acqua” – mi dicesti.

22 maggio 2006

Corri



Tu sei l'unico che può salvarla. E allora corri, corri fino a che non ne potrai più. Corri finché sentirai ogni muscolo delle tue gambe dolere, e in quel momento tu potrai contarli tutti, perché ognuno di essi ti fa sentire un dolore diverso. Corri finché il tuo volto si contrarrà in uno spasmo vermiglio, e il semplice riassumere un'espressione normale ti provocherà dolore. Corri finché non sentirai i tuoi polmoni esplodere, e tu vorrai toglierli per non essere costretto a provare quel dolore assurdo. E solo allora, allora tu comincerai a correre veramente, a correre per salvarla. Prima correvi per te stesso, ora corri per lei. Tu corri, ma lei ti sembra sempre lontana, troppo lontana. Ma tu sai che la devi salvare. Lei è il tuo amore, lei è la tua vita. La ragione per cui hai vissuto fino ad ora. La ragione per cui sei disposto a morire adesso. ILLUSO! è la scritta che tu leggi sulla porta. Terapia intensiva, leggono gli altri, ma tu sai benissimo cosa hai letto, cosa voleva comunicarti La Sofferenza travestita da chirurgo per l'occasione. E' troppo tardi. Troppo tardi per cosa? Troppo tardi per tutto. A quest'ora solamente un miracolo... Cazzo! Un miracolo! L'unica cosa che non puoi fare, l'unica cosa che non puoi darle. Ora, qui al suo fianco, chiudi gli occhi disperato, e speri di non riaprirli mai più.

14 maggio 2006

La stanza di sopra



Era da un mese che stavano assieme, Giacomo e Marisa. Grandi abbastanza per voler vivere da soli, ma per il momento senza i soldi per farlo. Così sia lui sia lei stavano ancora con i genitori. Oh, non era poi così un problema, si vedevano quasi tutte le sere. Solo che non avevano un posto in cui fare l’amore. Fosse semplice! Non lo potevano certo fare tra le mura domestiche, con i genitori nella stanza di fianco. La macchina? Aveva lo stesso problema della casa. Niente da fare.
Fu una sera che a lui uscì la frase “Beh, un posto ci sarebbe…”
Ma procediamo con ordine.

Erano già quattro anni che Giacomo lavorava presso quell’ufficio. Un ragioniere come tanti, cioè un lavoro di merda. Però non sgarrava mai, e questo il suo capo lo apprezzava, anche se non aveva ancora imparato il suo nome. “Giovanni” o “il ragazzo” lo chiamava. Fatto sta che il ragazzo s’era guadagnato il rispetto del principale, che gli aveva pure lasciato la chiave dell’ufficio, visto che arrivava prima degli altri, così poteva aprire e cominciare subito gli ingrati calcoli.

Un posto ci sarebbe, e quella sera Giacomo e Marisa ci andarono. Anche se era notte, la chiave dell’ufficio entrava liscia e girava che era una meraviglia, a lui parve strano. Giacomo aveva paura che li scoprissero, e lei ne aveva, se possibile, ancora di più. Le fece compiere uno strano giro turistico al buio per le sale dell’ufficio, solo un po’ di luce filtrava dalla strada. Più per assicurarsi che non vi fosse nessuno, che altro. Questo è il mio pc, questa la mia sedia, questo il temperamatite. Finita l’esplorazione si fermarono entrambi, leggendo ognuno nello sguardo dell’altro la domanda “e adesso dove ci mettiamo?”
La poltrona dell’ingresso fu un’ottima postazione per i preliminari. Le mani di lei, calde e voraci, turbinavano sul suo corpo, facendogli perdere dimensione e contatto con la realtà. In poco tempo furono spogliati quasi interamente. Ora non si preoccupavano più di dove fossero, così Giacomo la sollevò di peso e la depose su di un tavolo, duro ma non importava, i sensi avevano preso il sopravvento. Anche lei sembrava non soffrirne. Fecero l’amore, sì, ma ogni rumore proveniente dalla strada li faceva fermare e ricominciare, fermare e ricominciare, in un eterno e fastidioso stop and go. Solo l’orologio riuscì ad arrestarli. Si rivestirono che erano ancora sudati ed eccitati.
Uscendo dalla porta dell’ufficio al mattino presto, sensazione strana, l’aria era ancora più fredda sulla pelle sudata, e la luce dei lampioni fastidiosa ai loro occhi abituati al buio. Correndo verso casa, gli veniva quasi da ridere, come avessero fatto una marachella impossibile da scoprire.

Il mattino dopo in ufficio, Giacomo riguardò la poltrona e il tavolo. Avevano stranamente ripreso l’aspetto di ogni giorno, e non quello magico e imprudente della sera prima. La poltrona professionalmente attendeva i primi clienti, e il tavolo non era più un talamo complice d’amore, ma il fedele compagno di lavoro di sempre. Solo che se Giacomo li guardava, gli strappavano un sorriso. Avete in mente quando sognate una persona, e poi il mattino dopo la incontrate? Ecco.

Giacomo e Marisa avevano così trovato un’alcova stabile e riutilizzabile, e le occhiate complici che si lanciarono quella sera lasciavano intendere che vi sarebbero tornati spesso. La seconda volta però lui s’era attrezzato: si era portato un lettino pieghevole e un paio di coperte. Doveva certo apparire una figura strana questa giovane coppia che si aggirava per il centro città, di notte, con un simile e sfrontato armamentario, ma per fortuna quasi nessuno li vide. Nessuno che potesse farli scoprire, insomma. Con il lettino le cose migliorarono, eccome. Ma rimaneva sempre quel brivido di paura, il timore di essere scoperti che frenava i loro istinti.

Il lettino, già. Silenzioso complice di molte notti seguenti, rendeva tutto più semplice. Ormai la formula era collaudata, non servivano altri preziosismi per allestire l’alcova. Giusto una bottiglia di spumante se l’occasione era speciale, o un cd romantico per nuove eccitazioni.
Fu per introdurre una variante, che una sera Marisa propose a Giacomo di riutilizzare la poltrona.

Così il mattino dopo, con l’ufficio che era tornato un mero luogo di lavoro, il mobile dell’ingresso strappò un sorriso compiaciuto a Giacomo, come i primi tempi di quel loro strano pellegrinaggio notturno. Prima di cominciare il lavoro, il ragazzo vi si adagiò, con lo sguardo perso e la testa alla sera precedente. Fu da quella posizione che si ritrovò ad osservare le scale che dall’ingresso portavano al piano di sopra. Beninteso, quelle scale le aveva sempre viste. Solo che sapeva come quella porta là in cima fosse sempre stata per lui irrilevante, in quanto chiusa a chiave. I colleghi dicevano vi fosse celata una vecchia stanza, bloccata anni fa quando da un appartamento si era deciso di ricavare l’ufficio, e che veniva usata come ripostiglio. Non era di sua competenza né interesse, insomma.

L’idea della stanza al piano di sopra, però, lo accompagnò per tutta la giornata. Non era un pensiero fisso, ma piuttosto latente, sotterraneo, nascosto sotto i calcoli di quel giorno lavorativo. E fu proprio mentre non ci pensava, che gli venne un’idea. L’ufficio era stato ricavato da un appartamento, ok, questo lo sapeva, ma solo in quel momento rifletté sul fatto che i volumi erano rimasti pressoché gli stessi, e quindi le murature e le porte interne erano quelle della vecchia casa. Era possibile che tutte le serrature interne rispondessero ad un'unica chiave? Era possibile, sì, e decise di provarci quella sera. No, non resistette così a lungo, era troppo eccitato dall’idea che quell’ambiente celato si potesse rivelare un’alcova migliore. Sfilò la chiave della stanza in cui lavorava e si diresse verso l’ingresso. Si guardò attorno a lungo, non avrebbe potuto giustificare in alcun modo la situazione di fronte ad un collega che l’avesse sorpreso. Corse leggero in cima alle scale, diede un ultimo sguardo all’ingresso, infilò la chiave e la girò. Premette la maniglia lentamente per non far rumore, e la spinse avanti di pochi centimetri. Non guardò all’interno della stanza, vi dico, gli bastò intravedere la luce calda e sentire l’odore tiepido e pulito, mi capite? Come la stanza degli ospiti in casa della nonna, ecco. Tanto gli bastò, chiuse e scese le scale che non stava nella pelle.

Quella sera niente lettino. Marisa glie ne chiese il motivo, e lui rispose che aveva in serbo una sorpresa. Aspettami qui, le disse indicando la poltrona dell’ingresso. Poco dopo, era di ritorno con la chiave. Salirono i gradini che portavano al piano di sopra, nel silenzio della notte li si sentiva scricchiolare. Giacomo infilò e girò la chiave, aprì la porta, e videro la camera per la prima volta assieme. La stanza in cima alle scale era tiepida e luminosa, erano anni che nessuno chiudeva quelle imposte. Le lasciarono così, aperte alla luce della luna primaverile. Era tutto proprio come lui si era immaginato. Un letto di foggia antica, al centro della stanza, con sopra una coperta pesante di un colore che non si usa più, e poi una sedia, un armadio e un comò intonati al letto. Solo poche cose accatastate vicino ad una parete. E nell’aria un odore di polvere, ma buono.

07 maggio 2006

Io sto bene



Ho vent’anni, e passo tutte le mie giornate chiuso in casa, senza far niente e aspettando chissà cosa. Non esco, non vado al cinema, non vedo gli amici, non vado a mangiarmi una pizza, non trovo una ragazza… Basta, questa non è una vita, non è possibile continuare così.

Devo uscire, vedere qualcuno, fare qualcosa, e soprattutto trovarmi una ragazza. Così esco, cammino per la strada e guardo in quale magnifica proposta della nostra società consumistica gettarmi. Per prima cosa vado a farmi fare un abito su misura. Io. Non l’ho mai fatto? E allora lo faccio! Posso dirgli come lo voglio, e me lo fanno proprio come desidero. Poi mi iscrivo ad una palestra. Non ho mai fatto palestra. Pompo gli attrezzi, pompo le macchine, pompo i muscoli. Le mie gambe corrono sempre più veloci sul rullo e diventano potenti, enormi! In breve tempo il mio fisico diventa quello di un atleta. E che atleta! Vengo notato da Gino, il proprietario della palestra, il quale mi propone di continuare ad allenarmi gratis, che tanto, grosso come sono, per lui sono una pubblicità ambulante. Fico! Mi alleno, e pure gratis! Ma per fortuna il mio fisico non viene notato solo da quello stronzo di Gino, ma pure da Helena, quella rossa che fa sempre ginnastica per i pettorali. Una volta si allenava solo il giovedì, ma ormai sarà un mese che viene in palestra tutti i giorni, solo per me. Basta, sono stufo di osservare il suo sguardo voglioso e le sue tette sempre più appuntite che mi pugnalano da lontano. Vado lì. Glie lo dico. Ci mettiamo assieme. Lei è una gran porca, e mi spompa come poche. È lei a dirmi che conosce un tizio che ha un cugino che conosce un altro tizio, che sì insomma c’è uno che fa il regista e cerca un body-builder per un film. Mi presento. Il provino non è difficile. Mi chiedono solo il nome. Vengo scelto subito. Nessuno può reggere il confronto con il mio fisico. Il film è una merda, ma dopo che è uscito vengo contattato da un altro regista e poi un altro, e poi un altro ancora. Giro un casino di film. Sono tutti delle merde. Ma chissene fotte. Ora sono ricco. Sono famoso, la mia faccia è sui manifesti di tutte le città. Lascio Helena. Ormai quella troia non mi serve più. Posso avere tutte le donne che voglio. Victoria, quella che vuol scopare solo in macchina. Mi fa acquistare un’auto dietro l’altra, e sempre più grosse. Rebecca, che sta con me solo per i soldi, è evidente, ma fa pompini come nessun’altra. E poi Mary, la tossica. O meglio: tossico lo divento anch’io, che tanto mi dice che non fa male. Col cazzo non fa male! Dopo sei mesi vengo ricoverato in ospedale. Guarisco, esco e mollo Mary. Dopo due mesi mi rimetto assieme a lei, e ricomincio a farmi. E sono di nuovo in ospedale. Esco, e questa volta sono disintossicato del tutto. Pago Mary perché se ne vada dalla mia vita. E la pago pure un sacco di soldi, perché ora mi racconta di avere un’altra famiglia in un’altra città da mantenere, e va bene tutto purché se ne vada. Sono disintossicato e libero, ma senza un centesimo. Per colpa di quella troia e di tutta la droga che mi ha fatto prendere sono ridotto sul lastrico. Sono io ad andare dal mio ultimo regista, e pregarlo di farmi girare un film. Accetta. Il film segna il mio grande ritorno. È un successo, ma i miei guadagni finiscono direttamente ai creditori, che finalmente mi lasciano in pace. Un altro film, un altro e un altro ancora. Sono di nuovo sulla cresta dell’onda. Ricco e famoso. È stata dura superare l’incubo della droga, ma ora sono tornato, e sono finalmente il più grande attore del mondo.

Eh sì, sarebbe bello, ma in realtà sono ancora qui. Chiuso nella mia casa, seduto sulla mia sedia a rotelle, a vivermi l’inchiodo.