30 aprile 2006

Treno



Nello scompartimento di quel vagone ferroviario c’eravamo io, lui seduto di fronte a me, e una scolaresca. Il rumore creato dai ragazzi sembrava non disturbarlo, immerso com’era nella lettura del volume che stringeva tra le mani. Quel libro era tenuto da lui in posizione perfettamente orizzontale, e ciò mi impediva il poterne leggere il titolo sulla copertina. L’uomo era assorto nella lettura, ma la sua capacità di concentrazione era infastidita dal vociare della scolaresca. Egli, che era sulla trentina e aveva un aspetto molto curato, tendeva infatti a ruotare il volume in posizione verticale a mano a mano il rumore provocato dagli studenti lo irritava. A seguito di questo lento movimento del libro, io riuscii piano piano a scorgere delle figure sulla copertina, che divenivano sempre più chiare ai miei occhi. Le sagome cominciarono a rivelarsi dei cactus in mezzo al deserto. Dopo alcuni minuti di lenta rotazione, il libro raggiunse la posizione verticale e io potei così leggerne il titolo: “Padre e missionario – La vita di padre Eusebio Chini”. Sapevo però che la posizione più comoda per la mia vista della copertina, corrispondeva al grado massimo di irritazione del lettore, il quale infatti un attimo dopo si alzò e cambiò scompartimento, o forse scese dal treno.

La ragazza stava seduta di fronte a me, ma dall’altra parte del corridoio che divide i sedili del vagone ferroviario. Teneva con una mano una piccola agenda, la Smemo, e con l’altra vi scriveva sopra utilizzando una penna. Ogni tanto lei, che viaggiava da sola, senza valigie ma con lo zainetto, alzava lo sguardo, ma non per guardarsi intorno bensì per riflettere. L’intensità con la quale era assorta nel suo intento, mi fece capire che la ragazza annotava sul diario pensieri, sensazioni ed emozioni. Null’altro avrebbe avuto bisogno di rendersi carta con la stessa urgenza.

23 aprile 2006

Autobus



Ero su di un autobus che percorreva le vie cittadine, seduto in fondo al mezzo e rivolto in senso contrario a quello di marcia. Di fronte a me si trovava un uomo, anche lui seduto, e la posizione dei due sedili era tale da obbligare i nostri sguardi ad essere puntati sugli occhi dell’altro.
L’uomo indossava vestiti dismessi e aveva l’aria di chi ha lavorato abbastanza nella vita, per conoscerla a fondo. I suoi occhi erano piccoli e neri come gli unti capelli che gli cadevano sulla fronte. Il suo volto di contadino sui sessant’anni trasudava soprattutto un’impressione che definirei serietà.
Un elemento era però in contrasto con tutto ciò: il brick di succo alla frutta che stava succhiando. Una scatoletta di cartone colorata, stretta tra le sue grosse mani, dalla quale attraverso la cannuccia un succo alla pesca veniva bevuto con una curiosa quanto da me inattesa avidità. Trovai strana questa unione di due mondi così distanti.

L’autobus su cui ero seduto collegava la città alla periferia. Stavamo percorrendo una strada statale, circondata da campagne e capannoni industriali, quando il mezzo cominciò a rallentare e si arrestò in corrispondenza di una fermata.
Avevo scorto tre figure che attendevano l’arrivo dell’autobus, mentre questo stava rallentando, ma solo ora che salivano sul mezzo, dalla porta a fianco a me, potevo ed ero spinto ad osservarli. La prima figura a colpirmi fu quella che anticipò le altre salendo sull’autobus, quella di un cane lupo a cui mancava la zampa anteriore sinistra. Mi sembrava così strano che quel cane si comportasse e si muovesse senza problemi, con la stessa andatura di un qualsiasi cane, al punto che cercai a lungo con lo sguardo la zampa mancante. Non so come mai, ma mi stupì anche il fatto che avesse la stessa espressione di un cane qualunque, sebbene, attraverso la museruola, il suo muso rivelasse tristezza. Non potei fare a meno di collegare questa tristezza dell’animale alla mancanza della zampa.
Il mezzo ripartì. Il cane si sedette davanti ad un posto a sedere vuoto, a forse mezzo metro da me. Con lui era salito il suo padrone, il quale lo accarezzò dolcemente sulle scapole e il bravo animale si sdraiò, appoggiando il muso sull’unica zampa anteriore. L’uomo si voltò verso la terza figura salita con loro, il figlioletto che avrà avuto cinque anni, e gli disse: “Stai qui con Buck, io vado a parlare con l’autista.”
Il bambino avanzò fino ad afferrare un paletto, vi si tirò vicino e muovendo i suoi piccoli piedi in piccoli passi, cercando di non pestare le zampe o la coda del cane, si sedette nel posto più vicino all’animale. Ora che lo avevo di fronte, potevo osservare anche il bambino. Aveva lo stesso volto ed espressione di tutti i bambini. Mi venne da pensare che ora non trovasse strano quel suo cane, data la giovane età, ma forse fra qualche anno avrebbe pensato, sentendolo insolito “Ho avuto un cane senza una zampa”.
Alzai lo sguardo verso suo padre che parlava con l’autista del mezzo. Parlarono abbastanza a lungo per quello che reputavo si potessero dire, e ogni tanto mi giungeva qualche parola del loro discorso. Dopo un po’ l’uomo si voltò con un’espressione dispiaciuta e avanzò verso il bambino e il cane, che lo stavano aspettando con impazienza.
Venendo l’uomo anche nella mia direzione, potei così notare che doveva avere circa trentacinque anni, era magro, scarno, capelli e un paio di baffi scuri. Aveva la pelle leggermente olivastra, gli abiti e l’aspetto trasandati. Indossava un paio di pantaloni marroni e una camicia beige con sopra un gilet pure marrone.
L’uomo disse al bambino: “L’autista ha detto che dobbiamo scendere, non possiamo star qui.” Solo allora notai che l’uomo aveva sulla fronte, in mezzo agli occhi, un puntino blu: la tikka, il più tipico segno di appartenenza all’induismo. L’autista arrestò il mezzo alla successiva fermata, aprì le porte e la “famigliola” si ritrovò lungo il bordo di una strada statale. L’uomo disse: “L’avevo detto che ce la saremmo fatta a piedi.”, il bambino si lamentò e il padre gli rispose: “Dai, non siamo mica su di un’autostrada.”

Mi trovavo su di un autobus che attraversava la città, ed ero in fondo al mezzo e in piedi. A poche decine di centimetri da me si trovava lui, anch’egli in piedi, ed eravamo uno di fronte all’altro.
L’autobus era talmente affollato a quell’ora, che potevamo stare in una posizione sola per tutto il percorso: io a guardare negli occhi lui, ed egli ad osservare il mio sguardo nel suo. Per non percorrere tutto il tragitto osservandoci in quella maniera maleducata quanto forzata, abbassai il mio sguardo quando per me lui era ancora una sagoma senza caratteristiche.
Con gli occhi bassi osservavo così le sue scarpe, ma il mio sguardo era irresistibilmente spinto ad alzarsi per osservare la persona che avevo di fronte nella sua interezza, come se a livello inconscio trovassi in lui qualcosa che catturava la mia attenzione. Partendo dalle sue scarpe cominciai così a squadrarlo e, mano a mano che alzavo il mio campo visivo, trovavo in lui qualcosa che non definirei familiare, ma piuttosto come noto. La sua pancia era grande, rotonda e rassicurante, ma quello che più mi colpì fu l’ultima cosa che osservai di lui. Il suo volto era non rotondo ma paffuto, il viso di un uomo abbastanza anziano ma non da sentire i suoi anni come un peso. Un volto bianco ma rosso sulle gote, e lucido in maniera incredibile, al punto di sembrarmi di cera, incorniciato da una folta e ben tenuta barba bianca. Un viso straordinario, sembrava proprio lui.
Il mio sguardo era ora innegabilmente puntato sul suo volto, da non sapevo più quanto tempo. Lui mi sorrise bonariamente, e mi guardò con i lucidi occhi castani. Si era accorto che lo avevo riconosciuto. A quel punto ero proprio sicuro, era lui: era Babbo Natale.

16 aprile 2006

I salvastorie



Primo giorno di scuola. Ernesto cammina lungo i corridoi di un istituto elementare e pensa: “Perché avranno scelto proprio me per insegnare qui?! Io odio i bambini!”
Poi entra in aula, si siede dietro la cattedra e sbotta: “Sentite, marmocchi: io non ho voglia di insegnare e immagino voi non ne abbiate di imparare. Adesso io prendo uno stramaledetto libro di fiabe, ve lo leggo, e voi ve ne state zitti, chiaro?”
In quel momento entra il bidello, appoggia un vecchio e grosso libro sul tavolo e dice: “Mi scusi se ci ho messo tanto, professore, ma libri di fiabe in questa scuola non ne abbiamo normalmente. Questo l’ho trovato per caso nascosto sotto una libreria, in archivio.”
“Va bene, va bene… ma ora se ne vada!”
Ernesto apre il libro dicendo: “Ma quanta polvere c’è su questo dannato libro…”
Aprendo il volume a metà, da una nuvola di polvere esce un ometto minuscolo, un folletto, che dice all’uomo: “Omaggi a lei, prode cavaliere, che ha risvegliato me medesimo, il folletto Smeraldino, dal sonno secolare. E’ giunto il momento di andare a salvare il mondo delle fiabe!”
Appena dette queste parole la nuvola di polvere riappare e trascina Ernesto e il folletto in un vortice magico all’interno del libro. Mentre ancora precipitano nel vortice, l’uomo grida: “Ma che c@##o succede!?”
Smeraldino gli risponde: “Non è fine per un cavaliere del suo rango esprimersi in cotal guisa!”
“Ma io non sono un cavaliere!”
“Non è possibile, l’incantesimo parlava chiaro: sarei rimasto chiuso all’interno del libro finché un cavaliere non mi avesse liberato, e poi io l’avrei condotto a salvare il mondo delle fiabe!”

Al termine del vortice, Ernesto e il folletto si ritrovano in un salone, all’interno di un castello. Vicino a loro c’è uno specchio strano e molto grande.
“Dove diamine siamo?” urla l’uomo
“Siamo arrivati nella fiaba di Biancaneve, la conosci?”
“Sì, è quella della tizia che perde una scarpa.”
“Ma no: è quella della “tizia” che fugge dal castello perché la matrigna la vuole uccidere, e si rifugia dai sette nani. Poi arriva la matrigna travestita da vecchina, le fa mordere una mela avvelenata e lei cade addormentata finché non viene il principe a risvegliarla con un bacio.”
“Allora il mio lavoro è facile: bacio la tipa e me ne torno a casa.”
“Hemm… non è così semplice: guardati allo specchio!”
Ernesto guarda nello specchio, e vede riflessa una ragazza.
Il folletto sospira: “Tu sei Biancaneve!”
“Aargh! Tirami fuori da questa situazione!”
“Sei tu che devi uscirne, e per prima cosa devi fare la domanda allo specchio: la sai?”
“Sì, è… specchio specchio delle mie rane…”
“ ‘Brame’, ignorante!”
“E che vuol dire?!”
“Vai avanti!”
“Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”
Lo specchio risponde: “Splendente come il sole, candida come la neve, la più bella è senza dubbio Biancaneve!”
Smeraldino si allarma: “Atch, come temevo: fra poco la matrigna vorrà ucciderti!”
Allora l’uomo esclama: “E che c@##o! Sono appena arrivato e già mi vogliono far fuori! … Senti un po’, prima che la pazienza perda, cambierai idea brutto specchio di m&§>@?”
Lo specchio risponde: “Ti dico che non sbaglio, perché ho buona vista. Ma tu invece, parli peggio d’un camionista!”
Al che Ernesto aggiunge: “Ascolta brutto specchio, prima ch’io diventi pazzo: vuoi piantarla di rompermi il…”
Smeraldino lo interrompe gridando: “Andiamo, non hai tempo da perdere!” e lo trascina via.
La loro fuga dura però poco. Immediatamente gli si para di fronte il boscaiolo, il quale dice ad Ernesto: “Ho ricevuto ordine dalla matrigna di portarti nel bosco.”

Poco dopo i tre sono nel bosco. Il folletto parla sottovoce nell’orecchio di Ernesto: “Ascoltami: fra poco vi fermerete e lui ti ucciderà. Devi fare qualcosa!”
“Fermiamoci qui.” dice il boscaiolo
“Troppo tardi!” esclama Smeraldino.
Ernesto domanda al folletto: “Che cosa posso fare per convincerlo?”
“Beh, tu sei una ragazza giovane e carina, mentre lui è un omaccione di bocca buona… inventati qualcosa!”
“Ho capito.”
Smeraldino si volta dicendo: “Non voglio guardare!”
Poco dopo Ernesto batte due colpetti su una spalla del folletto: “Tutto a posto!”
Smeraldino si volta incredulo, domandando: “Già fatto?” Quando si è voltato del tutto, vede che il boscaiolo è stato tramortito con una randellata in testa.

Poco dopo, camminando nel bosco, i due trovano la casa dei sette nani. Il folletto domanda: “Bene, ora che abbiamo trovato la casa dei nani, lo sai cosa devi fare?”
“Certo: li schiavizzerò, li farò lavorare per me e combattere contro la matrigna!”
“No: sarai tu a fare tutti i lavori domestici per loro.”
“#£%$!”
“Coraggio, manca solo un giorno alla fine della storia. E modera il tuo linguaggio, fanciulla! Hi hi hi!”

Il giorno dopo, Ernesto/Biancaneve sta spazzando il pavimento della casetta dei nani. È già stufo di questo lavoro; sta esclamando “#£!” e “%$!” quando sente suonare il campanello.
L’uomo apre la porta e si ritrova davanti la vecchina con il cestino di mele, che le dice: “Sono una povera vecch…” al che Ernesto la interrompe dicendo: “Oh, finalmente sei arrivata! Non ne potevo più di questa vita di m&§>@ a fare le pulizie!” Poi le strappa la mela di mano, dicendo: “Ora posso morire in santa pace!” e le dà un morso (alla mela, non alla vecchina).
Poi dice, stupito: “Ma non è una Melinda! E poi: perché non sono morto?!”
Smeraldino risponde: “Il poco veleno contenuto nella mela può fare effetto su di una fanciulla delicata come Biancaneve, ma non su di te. Fai comunque finta di morire!”
Ernesto comincia a picchiare la vecchina gridando: “Brutta vecchiaccia! Perché non sono morto!”
“FAI FINTA DI MORIRE!” gli urla il folletto.
L’uomo si contorce in tre spasmi assurdi e poi cade a terra.
Smeraldino prosegue: “Bene, ora non ci resta che aspettare il principe… eccolo, è già qui!”
Ernesto dice, sottovoce, al folletto: “Ma io non voglio baciarlo!”
“Solo quando ti bacerà la storia sarà conclusa, e tu potrai abbandonare questa fiaba!”
“Sì, ma che schifo!”
Il principe bacia Ernesto, e subito dopo i nostri eroi vengono trascinati via dal vortice magico.

Qualche istante magico più tardi, i due si ritrovano in una stanza di una casa povera. Quando Ernesto ha finito di sputare, dice a Smeraldino: “Ma questa non è casa mia!”
Il folletto risponde solo: “Hemm…” guardando l’ombra dell’uomo sul muro: ha la sagoma di Pinocchio!
Ernesto grida: “#@£$%&!”

FINE

09 aprile 2006

Un fatto inspiegabile



In ogni tempo gli uomini hanno sempre finto la presenza concreta sulla Terra di spiriti dell’oltretomba. Questo per un bisogno di esorcizzare la morte, per renderla più vicina e quindi meno paurosa anche durante la vita. Ogni civiltà umana ha cercato di perseguire questo scopo con il massimo della cultura e della tecnologia disponibile. A questo servivano, nell’antico Egitto, gli dei del regno dei morti rappresentati sulle pareti interne delle piramidi. Per questo stesso scopo, nel medioevo i fantasmi venivano interpretati da uomini coperti da un lenzuolo o da una fitta bendatura. Successivamente, nel diciannovesimo secolo, durante le sedute spiritiche un medium poteva fingere il contatto con l’aldilà, facendo parlare i defunti attraverso di sé. Tutte manifestazioni spiegabili, dunque, e nulla di realmente ultraterreno.
C’è però un fatto, ambientato alla fine dell’Ottocento, che risulta ancora incomprensibile.

John Whiteman era un baronetto inglese che, per diletto, usava smascherare medium e impostori dell’occulto. Egli non lo faceva tuttavia perché convinto che gli spiriti non esistessero, ma anzi, al contrario, proprio perché sicuro della loro realtà non riusciva a sopportare i ciarlatani che speculavano su di loro. Il suo impegno lo portava a frequentare i salotti bene di Londra, dove sapeva si sarebbero svolte manifestazioni esoteriche, per smascherare i falsi medium.

Fu proprio il suo singolare passatempo a far sì che John Whiteman si trovasse, una sera all’imbrunire, a partecipare ad una seduta spiritica. Il rito era stato organizzato da alcuni uomini appartenenti alla nobiltà londinese, accompagnati dalle relative consorti. La riunione era presieduta da un certo Jack Dupin nel salotto della sua villa poco fuori la City. La stanza, che ad una prima occhiata appariva arredata normalmente, in realtà era stata attentamente studiata in modo che tutto, dagli antichi mobili alle tende porpora, avesse reso più lugubre la scena non appena si fosse lasciata accesa solo una candela, al centro del tavolo rotondo che serviva per la seduta, in mezzo alla sala. “Chissà quante farse organizza il ciarlatano in questa stanza.” pensava John Whiteman.
Il medium con alcune ridicole formule diede inizio al rito, e mentre gli altri le ascoltavano rapiti, Whiteman osservava quel grasso uomo prenderli in giro, nutrito in abbondanza dai soldi che così rubava agli sprovveduti. Sudava Jack Dupin, e il madore scivolava dalla sua fronte coperta dagli unti capelli neri fino a sotto le guance, sanguigne per il troppo alcol.
Erano alcune sere che John lo osservava bere vino fino a che non era ubriaco, alla locanda del Gallo Rosso, vicino al porto, da quando lo stava tenendo d’occhio. Era da molto che si preparava a smascherarlo.
Il medium sudava forse perché aveva riconosciuto in Whiteman l’uomo della locanda, o forse perché si era accorto del suo sguardo osservatore fisso su di lui, e non sui trucchi paraesoterici con teschi e simboli magici che stava eseguendo, e che tenevano incollati gli occhi degli altri. D’altronde John conosceva a memoria quei giochi che tutti i medium eseguivano prima della seduta vera e propria.
Dupin interruppe la litania annunciando che stava per cominciare la parte più importante del rituale, e dopo i soliti colpi battuti e le banali porte e finestre fatte sbattere da un complice nascosto, egli si mise a chiamare gli spiriti suggeriti dalle dame e ad imitarne le voci, fingendo risposte alle richieste dei presenti. Whiteman poteva smascherarlo subito con qualche abile domanda, ma preferiva tacere e aspettare, per fare in modo che l’indignazione dei presenti fosse maggiore, ma anche per vedere fino a che punto si sarebbe spinto il medium.
Dupin, dopo aver finto di far parlare personaggi famosi e alcuni antenati dei presenti, sui quali si era documentato dal momento in cui era stato fissato l’appuntamento fino a qualche ora prima della seduta, chiese con quale spirito i presenti volessero parlare per ultimo. John tolse la parola a tutti rispondendo subito “Un uomo qualunque!” Il medium rimase sorpreso da una simile repentina richiesta, e in silenzio per un istante. Quell’attesa fu interrotta da una voce che tuonò profonda: “Sono qui, e sono un uomo qualunque.” In quel momento apparve sopra la tavola, sospesa in aria, la figura di un uomo appena visibile e dai riflessi azzurrognoli. Il volto dello spirito era tumefatto, la testa reclinata in una insolita posizione, e il corpo ricoperto da un lungo e ampio vestito, fatto della sua stessa materia. Anche John Whiteman si spaventò: non aveva mai visto un’apparizione tanto reale. Lo spirito proseguì: “Sono Edward Ambaren e fino a qualche tempo fa, quando ero ancora in vita, ero un famoso produttore di seta. Immagino vorrete conoscere la mia storia. Dunque… mia moglie si chiamava Mary Hogson, figlia di un apicoltore della contea di Kent. Quell’uomo mi odiava, e pochi giorni dopo che Mary lo ebbe avvisato del nostro imminente matrimonio, il signor Hogson morì improvvisamente prima di poter fare l’ultimo discorso alla figlia, per cercare di distoglierla dal suo intento.
La prima notte di nozze, in cui avventatamente avevo passato poco meno di un’ora a festeggiare in una locanda con alcuni amici, quelli che Mary non sopportava, tornai a casa e la trovai incredibilmente pallida. Davanti ad una tazza di tè mi spiegò che lo spirito di suo padre le era apparso in casa, dicendole che se ormai non poteva nulla contro il nostro matrimonio, era però in grado di porre una condizione: Mary sarebbe dovuta rimanere vergine, e l’uomo aveva promesso vendetta se non fosse stato accontentato. Mary mi chiese di rispettare il volere del padre e io le risposi di sì, che l’avrei fatto. A dire il vero dissi così senza dare troppo peso alla cosa, solo per rincuorarla.
La nostra vita tornò a scorrere tranquilla, ma non ci dimenticammo mai di quel fatto. Rispettare il volere di Mary non fu poi così difficile, anche perché il lavoro mi teneva più tempo lontano da casa che non in famiglia, e potevo sfogare altrove i miei desideri. Passarono così degli anni senza che vi fosse problema alcuno.
Il dramma cominciò una notte. Io tornai a casa ubriaco, dopo che ero stato con gli amici in una locanda poco distante da casa. Una volta entrato vidi mia moglie già nel letto, e le saltai addosso. Lei si svegliò urlando e – cosa mi fece fare l’oblio dato dall’alcol! – le strappai le vesti che indossava. Lei gridò: “Fermo, ricordati della promessa allo spirito di mio padre!” e io le risposi che non me ne importava, perché non ci poteva più fare niente, quando un tenebroso “E così osi sfidare il mio spirito?” squarciò la notte e mi fece alzare lo sguardo. Davanti a me si trovava la figura di mio suocero, parvenza evanescente ma indissolubile, esattamente come Mary lo aveva descritto anni prima. “Non ti importa di me, eh? – proseguì lo spettro – Imparerai cosa succede a non rispettare uno spirito! Ti manderò contro l’unica compagnia e mia passione in vita, dopo mia figlia: le mie api, ancora sulla Terra.” Detto questo, la presenza scomparve.
Io rimasi dieci minuti nel terrore più completo. Quando stavo iniziando a calmarmi, e a pensare che forse si trattava solo di un’allucinazione causata dall’alcol e dalla contingenza, i miei orecchi si accorsero di uno strano ronzio, sempre più insistente. D’un tratto vidi un enorme sciame di api entrare dalla finestra. Io, disperato, urlai. Gli insetti mi furono addosso, cercai di fuggire ma questi mi oscurarono la vista e nella mia corsa impazzita io caddi sul pavimento. Mi contorsi molte volte, rapidamente, ma venni punto sempre di più. Il dolore era insopportabile. Mi misi a rotolare sul pavimento cercando di schiacciarle con il mio corpo e così io uscii dalla stanza giungendo sul corridoio. Continuai a rotolare senza capire dove mi trovassi finché scivolai giù dalle scale che conducevano in cantina. La mia tremenda corsa si arrestò solo quando sbattei contro la porta dello scantinato. Cadendo mi si era fratturata la spina dorsale; sentii le api pungermi, ma non potei fare niente, non potevo più muovermi per cacciarle o almeno allentare il dolore. Morii dopo un’ora di atroci sofferenze. Fu così che imparai a rispettare gli spiriti, e ora – disse rivolto al medium – lo capirai anche tu! Ho riservato per te la stessa sorte cui mio suocero mi ha condannato: verrai divorato dai miei bachi da seta!”
Dupin era così impietrito, che non si accorse degli insetti che avevano ormai coperto tutto il suo corpo. Solo quando questi cominciarono a morderlo, egli si mise ad urlare. Il medium cercò di togliersi di dosso i bachi, ma questi erano troppi, e già si stavano scavando a morsi dolorose gallerie sotto la sua pelle. L’uomo si percuoteva e si dimenava fino a cadere dalla sedia; le dame svenivano al vedere tale terrificante scena. Dupin si graffiava il corpo e il volto isterico, ma ormai era impossibile togliere i voraci insetti. La pelle del medium sanguinava ovunque, e mano a mano l’uomo stava smagrendo. Pochi momenti dopo egli era ridotto ad una pelle insanguinata appoggiata allo scheletro. Quando i bachi raggiunsero gli organi vitali, Dupin morì, sputando sangue in un ultimo profondo rantolo. Dopo qualche minuto gli insetti abbandonarono quel che restava del medium, lasciandone solo lo scheletro sul pavimento, sotto lo sguardo impietrito dei presenti.


FINE

01 aprile 2006

Smashing darkspirit



È sera in una città come tante, e il sole tramonta dietro la facciata di un liceo, rendendolo ancora più grigio. Suona la campanella: anche per oggi questa assurda porzione di vita è finita, e gli studenti escono dalle aule per andare a concludere la vuota giornata nelle loro grigie abitazioni suburbane.
Tra i ragazzi che camminano lungo il corridoio che porta all’uscita c’è una coppia di diciassettenni che si differenzia dalle altre a colpo d’occhio: Sean e Vera. Lui è vestito completamente di nero, con indumenti non particolarmente ricercati o costosi: un paio di pantaloni, una maglietta e una camicia aperta spiovente verso il basso, ma comunque corvini come i suoi capelli. Anche i capelli di lei sono neri, o almeno questo si può dire con certezza solo per i ciuffi che sporgono fuori dal berretto, di lana come la maglia; il suo abbigliamento proletario è marrone e dismesso, e potrebbe essere definito “grunge” se non fosse così realmente povero.
I due parlano tra di loro.
“Vera, non discuto l’irraggiungibile bellezza di ‘Adore’ e di ‘Machina’, ma la migliore formazione degli Smashing Pumpkins è senza dubbio quella di ‘Mellon Collie’.”
“D’accordo, ma vuoi mettere?”
Appoggiati ad una parete del corridoio alcuni ragazzi, capelli lunghi e vestiti in pelle borchiata, parlano tra di loro. Sono quelli che i professori definiscono “cattivi soggetti, futuri criminali di periferia”. Quando Sean e Vera gli passano davanti, uno di loro, evidentemente il capo, stacca la ragazza che aveva avvinghiata al corpo e alla bocca e apostrofa i due ragazzi.
“Hey gente, guardate chi passa: il becchino e la sua ragazza!”
“Ascolta: innanzi tutto lei non è la mia ragazza, e comunque non sono affari tuoi.” – è la risposta di Sean, ma Iro lo prende per il bavero della camicia, lo solleva da terra e lo sbatte con violenza contro la parete dicendogli: “Cos’hai detto, figlio di troia?”
Interviene la sua ragazza, Zora, a fermarlo: “Lascialo stare, Iro: non lo vedi che è un povero stupido?”
Iro scaglia con violenza Sean sul pavimento dicendogli: “Cerca di non rompermi più i coglioni, hai capito?”
Vera lo aiuta a risollevarsi e, mentre si allontanano lungo il corridoio, gli dice: “Sean, lo sai che non devi metterti contro quel decerebrato o finisci contro il pavimento.”
“Lo so, ma un giorno la pagherà, pagherà per tutto quello che ci ha fatto in questi anni.”
“Sì, sì, tu sogna pure ad occhi aperti! È meglio che ora te ne vai a casa. Ciao!”
“Ciao.”
Fuori dal cancello della scuola i due ragazzi prendono direzioni differenti.

Poco dopo Sean è davanti all’ingresso di casa: infila e gira la chiave nella serratura, apre la porta e si trova di fronte sua madre, in lacrime, che gli dice solamente: “Vieni.”
Il ragazzo segue la madre fino all’ingresso della camera in cui dormono di solito lui e il nonno; entrambi guardano all’interno della buia stanza, ma solo Sean entra. Il ragazzo si siede sulla seggiola posta vicino al letto dell’anziano e china la testa su di lui. Il nonno, evidentemente sofferente, gli si rivolge parlando con un filo di voce.
“Sean, finalmente sei arrivato. Ho tanto pregato il Signore che mi consentisse di rimanere in vita ancora un po’, finché tu non fossi tornato a casa.”
Sean riesce solo a dire: “Nonno…”
“Ragazzo, prima che la morte mi porti via c’è una cosa che devi sapere: un segreto che la nostra famiglia si porta dietro da generazioni. Saresti ben troppo giovane per venirne a conoscenza, ma la morte mi vuole adesso, non c’è più tempo per aspettare. Ogni membro della nostra famiglia può creare un proprio esercito di spiriti pronti ad intervenire in suo aiuto per difenderlo, semplicemente chiamandoli, e anche tu puoi avere il tuo. Basta crederci.”
“Il mio…esercito di spiriti? E chi sarebbero?”
“Nessuno oltre a te può saperlo, solo tu puoi scegliere i tuoi uomini fidati.”
“Ma…e la mamma?”
“Tua madre non sa nulla di questa cosa: le donne tramandano questo potere ai figli senza poterlo usare, perché funziona solo con gli uomini. Ahh!”
“Nonno!”
“Ascolta, Sean: ricordati che se usato male, questo potere può essere pericoloso. Cerca di non usarlo ancora per alcuni anni, finché non sarai pronto. Ora sei troppo giovane per capire: potresti lasciarti trascinare dalla rabbia e non riuscire più a controllarlo.”

Il pomeriggio seguente Sean, al funerale del nonno, non riesce a trattenere le lacrime.

Quella sera il ragazzo è nella sua camera, seduto sul suo letto. La fioca luce diffusa da una piccola lampada basta per mostrare come le pareti della stanza siano tappezzate da poster degli Smashing Pumpkins. Sean sta ripensando alle parole del nonno: “Puoi creare il tuo esercito di spiriti semplicemente chiamandoli… solo tu puoi scegliere i tuoi uomini fidati.” Mentre pensa a questo, Sean guarda fisso un poster davanti a sé.

Qualche giorno dopo Sean, durante la ricreazione, è nel cortile della scuola, seduto sui gradini dell’ingresso, con lo sguardo triste. Guarda una ragazza molto bella che si trova a diversi metri da lui e che scherza con dei ragazzi. Vera gli si siede accanto e gli domanda: “Ma anche in lutto pensi a quella lì?! Che poi, oltre al fatto che non ti ha mai degnato di uno sguardo, è anche un concentrato di stupidità quella ragazza.”
Sean assume un’espressione arrabbiata, ma si alza senza dire una parola e si dirige verso la ragazza. Quando le è vicino, lei lo apostrofa chiedendogli: “Hey, ma tu sei sempre in lutto? Che palle, oh! Ma cambiati d’abito una volta!”
Lui assume un’espressione ancora più arrabbiata e si allontana in silenzio.

Quella sera, mentre Sean sta tornando a casa chiuso nei suoi pensieri e guardando verso il basso, percorrendo un vicolo buio si trova la strada sbarrata da un paio di stivalacci e da una voce che gli dice: “Hey, amico.”
Sean alza lo sguardo e vede che di fronte a lui c’è un balordo che gli chiede: “Dammi qualcosa, dai… un po’ di moneta.”
Il ragazzo risponde: “No… non ho niente.”
E il balordo, mettendogli le mani sui pantaloni: “Come non hai niente…”
Sean esclama: “Hey!” ma l’uomo gli ha già estratto il portafoglio dalla tasca e dice: “Qui c’è qualcosa…”
Il ragazzo si getta sul portafogli gridando: “Ridammelo!” ma il balordo lo scaraventa a terra.
Sean grida, mentre l’uomo si volta a contare i soldi che sta rubando alla sua occasionale vittima.
Il ragazzo si rialza. È furioso, e digrigna i denti come fosse un lupo. Al suo fianco cominciano ad apparire cinque sagome che sembrano fatte di fumo e che si compongono dal basso verso l’alto. Quando le figure si sono rese concrete, Sean le guarda con stupore: sono gli Smashing Pumpkins.
Sean grida: “Hey, tu!” e il balordo si gira; vedendo quelle strane figure vicino a Sean, dice: “E voi chi cazzo siete?” ma la risposta che ottiene è quella di essere colpito da una scarica di pugni da tutti e sei. Per finire l’opera, D’Arcy sfregia il volto dell’uomo con le sue unghie lunghe e affilate.
Sean si guarda intorno, non sicuro di quello che è successo. Si volta, non vede più gli Smashing Pumpkins, e si domanda: “Dove sono andati…ma allora…”
Si gira nuovamente verso l’uomo e lo trova orrendamente sfigurato, dice: “No… è successo veramente…” e poi corre a casa.
Seduto sul suo letto, stringendosi al petto le gambe tra cui tiene la testa in posizione fetale, Sean pensa: “Il nonno me l’aveva detto che non ero ancora pronto per il mio potere… non devo usarlo mai più… mai più.

Il mattino dopo Sean, ancora assonnato, percorre la stessa strada di ogni giorno per andare a scuola. Non pensa a quello che è successo la sera prima, lo considera come uno di quei sogni che al mattino bisogna dimenticare, perché sono solo fantasie che ci possono distogliere dalla realtà. È soltanto quando passa in quel preciso punto, che ora vede transennato dalla polizia, che si ricorda ogni cosa. “Ieri sera… ho ucciso un uomo.” è il pensiero che gli trafigge la mente, veloce come un lampo e freddo come la morte. Sean passa oltre, cercando di fare finta di niente, ma non riesce a fare a meno di osservare il cadavere dell’uomo, proprio come l’aveva lasciato, e i poliziotti attorno che eseguono i rilievi, come moscerini attorno ad un frutto che puzza già di marcio.

Una volta in classe, Sean si perde nei suoi pensieri. Non ha voglia di seguire la stupida lezione di anatomia che quell’odioso del professor Dork sta tenendo, ma anche se l’avesse non vi riuscirebbe, perché sconvolto da quello che ha fatto. È Vera, sua compagna di banco, a risvegliarlo dai suoi pensieri domandandogli: “Sean, che hai?” Lui risponde: “Niente.” ma il professore li sente e li apostrofa: “Voi due! Non solo non seguite la mia lezione, ma avete anche il coraggio di disturbare. Ma bravi! Continuate così, eh!”
Cosciente del rimprovero subito, ma desiderosa di aiutare Sean, qualche minuto dopo Vera torna a domandargli sottovoce: “Sei strano oggi, dimmi cos’hai.” al che lui risponde seccato: “Non ho niente, e ora lasciami in pace!” si alza in piedi e dice al professore: “Io devo uscire.”
Il professor Dork ribatte: “Ah, è così? È tutto l’anno che non segui, ti permetti di disturbare le lezioni e ora vuoi pure andartene? Ma prego, tanto qui io parlo per i muri! Credi di essere furbo, eh? Ma vedremo alla fine dell’anno chi è il più furbo!” Mentre esce dall’aula Sean è impermeabile agli insulti del professore: sono anni che li sente e in più oggi ha proprio la testa altrove.
Una volta in corridoio, Sean si dirige verso il bagno. Entrato nei servizi, vi trova Iro, appoggiato con il sedere ad un lavandino, che sta fumando. Quando questo lo vede lo apostrofa: “Anche qui vieni a rompermi le palle, becchino? Vai a giocare con quella troia della tua amica e non scassarmi il cazzo!” Sentendo queste parole, la rabbia che Sean ha accumulato fino ad ora esplode tutta assieme. Alle sue spalle cominciano a materializzarsi gli Smashing Pumpkins. Iro, stupito, gli domanda: “E voi chi siete?” al che Billy Corgan gli si avvicina, gli afferra la testa con una mano e gli risponde: “Siamo l’inizio della tua fine!”
Poco dopo Sean esce dal bagno e si dirige verso la sua aula. Sta premendo la maniglia della porta quando sente un urlo provenire dai servizi: un ragazzo è entrato e vi ha trovato il corpo di Iro, sdraiato per terra e con il volto orribilmente sfigurato appoggiato sulla tazza di un water, in un lago di sangue.

Il giorno dopo, a scuola, Sean passa con Vera davanti alla porta del bagno: è aperta, ma l’ingresso è stato transennato dalla polizia che ha già eseguito i primi rilievi. Lì vicino si trova il professor Dork, che sta guardando all’interno dei servizi già da un po’. Il ragazzo non sa esattamente cosa pensare, ma è conscio del fatto che deve allontanare da lui ogni possibile sospetto; quindi dice a Vera, guardando la macchia di sangue che ancora tinge di rosso le piastrelle davanti al lavandino: “Che morte orribile, chissà chi sarà stato.” Sentendo queste parole, il professore lo apostrofa: “Ah, ma tu parli anche? E come mai durante le interrogazioni non ho mai il piacere di sentire la tua voce?” Sean risponde: “No… ma io pensavo che…” al che Dork infierisce ulteriormente: “Ah! E addirittura tu pensi? Guarda, me ne vado perché non posso sopportare oltre la tua presenza!” e si dirige verso l’aula insegnanti. Il ragazzo aspetta qualche istante, poi segue il professore. Vera lo guarda preoccupata. È nell’istante in cui Sean attraversa la soglia della stanza, che al suo fianco appare il suo esercito. Vedendoli entrare Dork, che sta fumando una sigaretta mentre legge il giornale, si volta e urla: “Che cazzo volete ora?!” Sean gli si avvicina, lo guarda fisso negli occhi e gli dice: “La morte non dà risposte.”
Poco dopo, un altro grido squarcia il silenzio della scuola, quando un insegnante entra nella sala professori e vi trova il corpo di Dork, sdraiato sul grande tavolo al centro della stanza, orribilmente quanto con precisione sezionato. Ogni muscolo è stato separato dagli altri e deposto a parte sul tavolo, ogni organo interno estratto dal corpo e messo in ordine a fianco di questo, il tutto in un lago di sangue. Nessuno ha idea di chi possa aver fatto questo massacro.

Durante la ricreazione, Sean è seduto sul solito gradino e guarda la bella Ava, che se ne sta sempre qualche metro più in là a scherzare con gli altri ragazzi e non con lui. Sean pensa: “Mi hai sempre rifiutato, ma ora sono forte, invincibile e pericoloso: non oserai dirmi di no.” quindi si alza e si dirige verso di lei. Quando le è davanti le dice perentorio: “Ava, questa sera vieni con me.” al che la ragazza risponde: “Ma stai scherzando? Ti pare che io posso uscire con uno insignificante e funereo come te? Io voglio uscire con uno…uno come Mark! È bello, atletico, simpatico e pieno di personalità, non come te.” indicando un ragazzo che passa poco più in là in quel momento. Sean si allontana mormorando a denti stretti: “Assaporerai la mia vendetta quanto prima!”

Quella sera, Ava si trova da sola nel piccolo e buio cortile sul retro del liceo. Apre un foglietto che teneva piegato con cura in una tasca del vestito e lo rilegge, tra sé e sé: “Ti aspetto questa sera, alla fine delle lezioni, nel cortile sul retro della scuola. Mark.” e poi pensa: “Chissà come mai non si è ancora fatto vedere…eccolo!” scorgendo una figura che si avvicina. Ma quando questa le è più vicina, lei la riconosce e la apostrofa: “Sean, non dirmi che sei stato tu a farmi questo scherzo e che Mark non verrà, perché se no sei veramente stronzo, eh?” Ma Sean non ha intenzione di starla ad ascoltare, la sua rabbia è già alle stelle: al suo fianco cominciano ad apparire le ombre del suo esercito di vendetta. Billy Corgan avanza verso la ragazza, le afferra il volto con una mano, in una strana carezza dolce ma dolorosa allo stesso tempo, e le dice: “It’s you that I adore, you will always be my whore.” Il volto di Corgan si trasforma in quello di Sean, che prosegue dicendole: “You’ll be a mother to my child and a child to my heart.” Da questo momento i volti di Sean e di Billy Corgan continuano ad alternarsi sullo stesso corpo. Egli la sbatte sul terreno con una manata dicendole: “We must never be apart! We must never be apart!” Comincia a strapparle i vestiti dicendo: “Lovely girl you’re the beauty in my world, without you there aren’t reasons left to find.” e infine la violenta continuando a recitare: “And I’ll pull your crooked teeth, you’ll be perfect just like me. You’ll be a lover in my bed and a gun to my head. We must never be apart! We must never be apart!. Lovely girl you’re the murder in my world, dressing coffins for the souls I’ve left to die. Drinking mercury to the mystery of all that you should ever leave behind in time. In you I see dirty, in you I count stars, in you I feel so pretty, in you I taste god, in you I feel so hungry, in you I crash cars, we must never be apart! Drinking mercury to the mystery of all that you should ever seek to find. Lovely girl you’re the murder in my world, dressing coffins for the souls I’ve left behind in time. We must never be apart!” Poi lui le afferra il volto come aveva fatto all’inizio e le grida: “And you’ll always be my whore cause you’re the one that I adore!” Alza un pugno al cielo e poi glielo scaraventa con violenza sulla bocca rompendole tutti i denti, urlando: “And I’ll pull your crooked teeth, you’ll be perfect just like me!” Lei apre la bocca per gridare dal dolore, ma è paralizzata dalla paura; le riesce quindi solo di mostrare che i suoi denti sono tutti rotti. Lui le infila con violenza una mano all’interno del torace, urlando: “In you I feel so dirty in you I crash cars!” Poi la estrae strappandole il cuore, gridando: “In you I feel so pretty in you I taste god!” Infine allarga le braccia, alza la testa verso l’alto e mostra il suo trofeo sanguinolento al cielo nero della notte, cantando e gridando: “We must never be apart!”

Il giorno dopo al liceo Sean, che ha un’espressione sempre più cupa e allucinata, sta camminando lungo il corridoio, quando viene afferrato da un braccio spuntato velocemente attraverso una porta, e trascinato altrettanto rapidamente all’interno dello sgabuzzino. Quando la porta si è richiusa, il ragazzo vede che è stata Vera a tirarlo all’interno, e le domanda seccato: “Ma che vuoi?!” “Voglio parlarti, sono giorni che non riesco a farlo e tu sei sempre più strano!” è la risposta della ragazza che poi prosegue: “Qui a scuola si mormora che sei stato tu ad uccidere quelle persone, perché avevi problemi con tutti loro. Inoltre eri al bagno quando è stato ucciso Iro, e io ti ho visto seguire Dork nella sala professori poco prima che venisse trovato morto. Dimmi la verità se non vuoi che io dica alla polizia quest’ultima cosa!” Sean esita, e non risponde. Esita, e non risponde. Ma poi è costretto ad ammettere tutto e a rivelare il suo segreto a Vera. Quando questa ne viene a conoscenza, rabbrividisce dall’incredulità e dal terrore, ma riesce a chiedere a Sean: “Questo tuo potere non è per niente utile, può solo causare morte e dolore alle persone che ti stanno attorno. Ti prego, rinuncia a questa cosa orribile, controllati, resta calmo e non desiderare mai la morte di una persona. Prometti che lo farai, in nome della nostra amicizia.” Sean ha ancora un attimo di esitazione, ma poi, con lo sguardo basso, dice: “D’accordo, lo prometto.”
Fuori dello sgabuzzino, però, con un orecchio appoggiato alla porta, si trova Zora che ha udito parte del dialogo tra i due amici e pensa: “Dunque è stato proprio il becchino a uccidere il mio Iro e tutti gli altri. Ma ora è giunto il momento della mia vendetta!”

Quella sera, Vera telefona a Sean e gli dice solo: “Presto, vieni subito a scuola, sono nel cortile davanti all’ingresso e ho bisogno di te!” Ma è solamente quando il ragazzo giunge davanti al liceo e trova l’amica legata a una colonna di cemento, circondata da Zora e dai cinque ragazzi della banda di Iro, che capisce tutto. Zora gli dice: “Adesso la pagherai per la morte di Iro.” e uno dei ragazzi si scaglia contro Sean colpendolo al volto e scaraventandolo a terra. Lui si rialza rabbioso, e il suo esercito appare alle sue spalle. Vera grida: “Nooo!” ma ormai è troppo tardi: la carneficina ha inizio.
In questo uno contro uno, Sean e Billy Corgan attaccano e si difendono con i pugni, James Iha con mosse di karatè mentre Jimmy Chamberlain e Johnatan Melvoin sferrano colpi di kick-boxing. Lo scontro prosegue a lungo alla pari, finché gli uomini di Sean non hanno la meglio annientando quelli di Iro. Rimane in piedi solo Zora; D’Arcy le si avvicina, le accarezza il volto con le dita lunghe e le unghie affilate, le dice: “Tremendamente bella e tremendamente cattiva: sarà un piacere ucciderti!” e le infilza le dita nello stomaco: Zora sbarra gli occhi, comincia a vomitare sangue e poi cade a terra.
Gli Smashing Pumpkins si dissolvono e Sean corre a slegare Vera, la quale però lo rimprovera: “Sean, mi avevi promesso che non avresti più usato il tuo potere, lo avevi giurato sulla nostra amicizia. Sei solo uno stronzo!”
Il ragazzo risponde: “Ma Vera, l’ho fatto unicamente per liberarti e per difendermi da loro! Cosa volevi, che gli lasciassi ammazzarci tutti e due senza fare nulla?!”
“Non ti avrebbero ucciso, solo picchiato e poi ci avrebbero lasciato andare. E comunque io le mantengo le promesse: d’ora in poi noi non siamo più amici. Non voglio vederti mai più!!!”
Sean è gonfio d’ira dopo aver sentito queste parole, però quando al suo fianco compaiono gli Smashing Pumpkins lui grida: “No, non volevo chiamarvi!” ma questi già si stringono attorno a Vera che urla: “Noo, fermo, noo!” Billy Corgan tiene il collo di Vera stretto tra le mani, e con ogni suo movimento stringe la morsa mortale, mentre Sean lo guarda impietrito senza poter fare nulla. Corgan si volta verso il ragazzo, e quale indescrivibile orrore prova Sean nel vedere che il volto di colui che sta strozzando l’amica non è quello del cantante, ma il suo! Il ragazzo non capisce quello che sta accadendo, e solo quando si trova davanti il viso di Vera, congelato in un ultimo urlo di morte, e vede che le mani che le hanno stretto il collo sono le sue, solo allora capisce tutto. Sean molla di scatto la presa, ma il corpo della ragazza cade ormai privo di vita.
“Allora… allora non era vero… tutti questi omicidi li ho compiuti io… solo io.”

Il mattino dopo, il quotidiano locale titola l’articolo di prima pagina: “Strage al liceo – sette omicidi ed un suicidio.”



FINE